Incomincio con una frase di Ernesto Guevara, detto il Che: «Siamo realisti. Vogliamo l’impossibile».
La mia storia ha inizio un 16 settembre in una cesta di vimini, nel sud del mondo. Nasco da madre italiana e padre brasiliano, e i miei ricordi più belli appartengono a quel meridiano tropicale, a quella terra in bilico sospesa tra contraddizioni vertiginose, il Brasile. E il paese del siamo realisti. Vogliamo l’impossibile, è proprio quello dove sono nata.
In quella patria di miracoli, durezze e sensualità innate, c’è tutto quello che ho imparato a essere: nostalgica come le mie saudades, interiore come i silenzi di certe spiagge deserte e selvagge, solare e autentica come quella terra che sotto i piedi non mente quasi mai, sognatrice come sanno essere i latino americani quando raccontano verità che sembrano illusioni, ostinata come chi è cresciuto dentro distanze enormi, che chiedono buone scarpe e determinazione per raggiungere i luoghi.
E allora gli opposti convivono ininterrottamente in una danza che ha il sapore di altri tempi e una meraviglia di sincronie.
Mi capita spesso di ricordare la mia grande casa a San Paolo, e quella piscina in giardino dove ho imparato prima a nuotare che a camminare; ritrovo il mio salice piangente, l’altalena su cui dondolavo, l’acqua e la natura tanto vicine da entrarti dentro.
E riconosco il mio inizio avvolto da profumi intensi, dentro giornate d’incanto scandite da stagioni che si parlavano l’una con l’altra, contaminandosi, dilatando il tempo fino a renderlo un tempo vago senza tempo, che sembrava figlio di un racconto di Jorge Amado, o di certe suggestioni del realismo magico.
Abituarsi all’Italia a soli nove anni, era come combattere una guerra fredda implosa dentro di me, il Brasile restava la mia dimensione magica interiore. Oggi amo entrambe le mie identità: quella europea e quella latina, unite dentro uno stesso corpo che a volte esalta, a volte contiene, come un pendolo che oscilla tenendomi in equilibrio tra le molteplici sfaccettature della mia vita.
Mi sono cercata a lungo, domandandomi chi ero stata, e chi per certi versi non potevo più essere. Temevo di ritrovarmi in una storia nuova che non sapevo ancora, e forse non mi sarebbe piaciuta. Ma ho capito presto che le radici non si perdono. E lasciare il proprio paese natale non è uno strappo, ma è un cammino. Partendo sapevo che sarei potuta tornare, e ripartire. E se le partenze e i ritorni lasciano il segno, ridisegnano anche la mappa dell’anima, ti caricano di energia, ti insegnano la passione per la vita.
Il rapporto che ho con il futuro è un rapporto di fiducia ma anche di diffidenza. Si parla troppo del domani e non si ascolta abbastanza il passato. Il poeta T.S.Eliot diceva che «il tempo passato e il tempo presente confluiscono entrambi nel tempo futuro». E dunque che il futuro è figlio di passato e presente.
Io guardo avanti, ma con i piedi ben saldi nella mia terra di bambina, con la consapevolezza che quello che sono stata è quello che vorrò sempre essere. E le mie piccole schegge di passato le custodisco attraverso l’amore per le vecchie fotografie, scrivendo ancora a mano quando la tecnologia rischia di vedere nuove generazioni incapaci di impugnare una penna e di graffiare la carta con l’inchiostro. Amo ricordare ma anche immaginare quello che ancora non c’è.
Poi sono cresciuta come tutti. La mia adolescenza ha visto susseguirsi le note di un adagio, poi di un presto con fuoco, un allegro appassionato, per tornare a un lento sostenuto e unandante con moto, alti e bassi e tanta impazienza. Ho terminato il liceo classico scalpitando e sono andata a vivere da sola. Ho sempre rivendicato i miei spazi.
Da ragazzina ho piuttosto preferito nascondere che mostrare, così lo spot della Tim del 2000 fu una rivelazione a livello nazionale totalmente inaspettata, che per due anni mi ha voluta su una barca a vela a circumnavigare le coste della nostra penisola. È stata per me fonte di grande sorpresa, divertimento, ma anche di insicurezza per l’età che avevo allora.
Sembrava una lotta contro il tempo, tutto correva troppo rapido per una ragazza come me, abituata a riconoscersi nella consuetudine dei suoi punti fermi. Sono stati anni di meraviglia, spensieratezza, novità continue, eppure sapevo che dovevo fermarmi per potermi sentire ancora, per capire come raggiungere gli obbiettivi all’altezza delle mie aspettative. Così ho ricominciato a studiare. Ho frequentato la scuola Teatro Blu di Beatrice Bracco a Roma, l’Actors Center con Michael Margotta, vari stages e workshops con Greta Seacat, Bernard Hiller, Geraldine Baron, tutti insegnanti eccezionali che mi hanno aiutato a focalizzare le mie capacità e sviluppare il mio talento. Ho trascorso tre mesi alla Beverly Hills Play House a Los Angeles osservando più da vicino come si lavora a Hollywood e poi a Parigi con Sofia Coppola. Attraverso queste esperienze, ho capito il grande valore della disciplina e di quanto sia determinante il training di preparazione dietro a ogni successo. Quando sono tornata mi sono rimessa in gioco, ormai avevo le risposte che cercavo.
E ora curiosando un po’ tra i miei libri, la mia musica, i miei film…
Il pianista Ryucki Sakamoto, scintillante nel suo pianoforte. Mi riporta ai tramonti rosa a bordo della piccola barca a vela dello spot della Tim grazie al quale ho fatto il giro d’Italia navigando. Quelle tartine al salmone affumicato, quella salsedine sulla pelle e il vento. A bordo solo donne, amiche e complici di momenti irripetibili. Amo molto Gianna Nannini. Il profumo. Mi piace l’erotismo, quella voce perfetta, quel senso selvaggio che attraversa le sue note. E poi la meditazione musicale del grande Ennio Morricone. Il flauto di Pan che accompagna C’era una volta in America, mi porta nel mondo surreale delle possibilità che solo il cinema sa dare.
E John Lennon, di lui cosa si può dire che non sia stato già scritto? Per me una sua piccola canzone, unica, Jelouse gay, perché sono nostalgica e perché gli uomini sono sempre gelosi: «I was dreaming of the past, and my heart was beating fast, I begun to lose control».
Di Lucio Battisti adoro Comunque Bella, testo vero e struggente, scritto da Mogol: «Anche quando un mattino tornasti vestita di pioggia, con lo sguardo stravolto da una notte d’amore…». E ancora, Shostakovich, il Walzer numero 2, e il primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach. E Mina, tutta Mina, ma soprattutto: Se telefonando perché mi fa piangere. E i Pixis: Where is my mind, perché sembra anche a me qualche volta di camminare con i piedi per aria e la testa a terra. E la voce di Etta James, At Last che è un prodigio e mi mette di buon umore perché se la senti con lo spirito giusto non puoi non credere nell’amore. E ancora PJ Harvey, Portischead, Florence and the machine, Vanessa Paradis, di lei amo il suo fascino zingaro e francese. Infine tutta la musica brasiliana ça va sans dire, Tom Jobim, Chico Buarque, Vinicius de Moraes, Joao Gilberto, Maria Betania, Gal Costa, Toquinho…
I miei film cult, uno dopo l’altro: Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, Lolita e Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, La ragazza sul ponte di P. Le Conte. Nikita di Luc Besson, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, e Gilda di Charles Vidor, Bella di giorno di Luis Bunuel, e Bagdad Caffè di Percy Adlon. E ancora un film italiano: La ragazza con la pistola, di Mario Monicelli, e il Pasolini di Mamma Roma, e Figli di un dio minore di Randa Haines. Infine Paris Texas di Wim Wenders.
Tra questi capolavori però, dopo tanta indecisione, devo confessarvi ne ho un preferito, e non è un caso che l’ho messo per ultimo. Paris Texas di Wim Wenders. È una storia di formazione che ho visto per la prima volta quando avevo 17 anni e che mi ha profondamente colpito. Atmosfere rarefatte, lunghi silenzi, mondi interiori raccontati attraverso uno sguardo. E desolazione e sensualità: l’odore della seduzione, ingenua ma consapevole, fragile e onnipotente di una giovane Nastassja Kinski nel ruolo di Jane, dietro a un vetro di un locale a luci rosse. Avrei voluto essere come lei, intensa e sperduta, seducente e malinconica nel suo pullover extra large, in attesa, al di là di uno specchio semiriflettente che le censura i propri orizzonti.
È un film che mi ha fatto sognare un giorno di poter interpretare ruoli come quelli, che mi ha emozionato, che mi ha restituito la fiducia in un mondo creativo possibile e mi emoziona ancora parlarne in questo momento. Ecco, film come questi sanno guidarti, si raccontano tramite il linguaggio sfumato del non detto, del sentire sotterraneo e non esplicito che riesce ad amplificare i contenuti con lentezza ma in modo incisivo. È così che ho iniziato ad amare il cinema. In un pomeriggio come tanti ma non uguale a tutti gli altri. Ho riconosciuto il sogno, e ho saputo quale sarebbe stata la mia strada.
Cime Tempestose di Emily Bronte, Un Uomo di Oriana Fallaci, Il Codice dell’Anima di James Hillman, Il Danno di Josephine Hart, Il Monte Analogo di Renè Daumal, L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcìa Marquez. Infine la mia poetessa preferita Alda Merini in Fiore di poesie, e il grande Pedro Salinas in La voce a te dovuta.
Se dovessi però scegliere un libro su tutti dico: Un Uomo, di Oriana Fallaci. È uno dei libri più viscerali e passionali che mi sia capitato tra le mani, e sapere che racconta il vero amore tra una donna straordinaria, Oriana, e un uomo altrettanto assoluto, Alekos Panagulis, mi conquistava con dolore, pagina dopo pagina. È scritto in modo travolgente, senza lasciarti lo spazio per un lamento. Quello che viene raccontato va oltre ogni realtà immaginabile. È un libro che mi ha accompagnato per molto tempo. In un momento di passaggio e di forte rinnovamento della mia vita, anche quando lo avevo terminato, lo riaprivo, lo rileggevo, lo sottolineavo o ne rubavo qualche stralcio da annotare sul mio quaderno. E per un lungo periodo si è trasformato in una sorta di confidente, di rifugio, di voce dell’anima. Un pezzo della mia vita che ha assunto il peso specifico di un testo catartico come questo. C’è un passo che amo particolarmente di quel libro:
«Alekos, cosa significa essere un uomo?» «Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere. Guarda più o meno quello che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per te cos’è un uomo?» «Direi che un uomo è ciò che sei tu, Alekos».
Sono romantica, sento per immagini e ragiono con le emozioni. Credo nella reincarnazione e adoro gli angeli. Le cose sembrano avere più senso in questo modo. Il destino esiste ma esiste anche la capacità di immaginarsi una vita e farla combaciare con la realtà che ci costruiamo attraverso le nostre azioni. Eraclito docet. Le abitudini costituiscono il nostro destino, giorno dopo giorno.
“La gioia più grande è sempre quella inattesa”. E queste parole sono un po’ la sintesi di tutto quello che ho raccontato.
Grazie per avermi letto fino a qui, grazie per il vostro tempo, in questo luogo, in questo sito.
Gaia.